Riflessione di S. Em. Card. Gianfranco Ravasi in occasione del Giubileo dei Sacerdoti

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UNA RIFLESSIONE SULLA MISERICORDIA

 

 

         Friedrich Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, aveva voluto proporre una sorta di vangelo alternativo rispetto a quello cristiano: «In verità io non amo i misericordiosi che si beano della loro compassione: mancano di pudore... Tutti i creatori sono duri... Dio è morto e la sua compassione per gli uomini fu la sua morte... Sia lodato ciò che ci rende duri». È facile accostare a questa proclamazione il vangelo di Cristo in perfetta antitesi: «Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro» (Luca 6,36)... «Beati i misericordiosi perché sarà usata a loro misericordia» (Matteo 5,7). Anzi, quando si alzerà il sipario del giudizio personale e universale, come ricorda Matteo nel cap. 25 del suo vangelo, Cristo dividerà idealmente due campi.

         Da un lato, saranno collocati coloro che hanno praticato la carità misericordiosa e che «riceveranno in eredità il Regno preparato fin dalla creazione del mondo» (25,34). D’altro lato, invece, sfileranno coloro che hanno chiuso il loro cuore e le mani ai fratelli bisognosi e, quindi, saranno votati al «fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (25,41). La discriminante della salvezza e della condanna è, quindi, legata alle opere di misericordia. Come affermava s. Giovanni della Croce nelle sue Parole di luce e di amore (n. 57), «alla sera della vita, noi saremo giudicati sull’amore». Questi atti misericordiosi non sono, però, meramente etico-filantropici ma teologici perché in quei «fratelli più piccoli», poveri e miseri, è insediata la presenza stessa di Cristo.

         Infatti il Giudice divino dichiara: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete  e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (25,35-36). Significativo è il fatto che non necessariamente queste persone sapevano che in quegli infelici era presente Cristo stesso. Il loro atto umano di amore misericordioso si trasformava in cristologico, da gesto di solidarietà si trasfigurava in atto di fede. Sono quei «cristiani anonimi» (secondo la locuzione di Karl Rahner), i quali – pur rimanendo registrati idealmente nell’ambito dei non credenti – attestano non a parole ma nelle opere il principio fondante del discepolato formulato da Gesù nei discorsi dell’Ultima Cena: «Da questo sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,35).

         Ebbene, affrontare la categoria della misericordia, soprattutto con l’anno giubilare straordinario dedicato a questa virtù da parte di papa Francesco, esige una riflessione che tenga conto anche della critica di Nietzsche: è, infatti, necessario liberarla dalla polvere del devozionalismo, dalla vaghezza dello spiritualismo, dalla retorica moralistica, dalla genericità del linguaggio filantropico o caritativo per ritrovarne l’anima teologica e morale genuina. Proprio per questo è importante adottare in via preliminare un percorso di taglio esegetico-filologico che risalga alla matrice capitale della nostra fede e della stessa cultura occidentale, cioè al “grande codice” della Bibbia.

 

         Il lessico della misericordia

 

         La misericordia è nel cuore del messaggio scritturistico tant’è vero che a Dio viene assegnato come epiteto personale il sostantivo ebraico rehem, al plurale rahamîm. Esso designa il grembo materno, le viscere generative femminili e maschili per cui nella Bibbia non è il cuore l’organo della misericordia, come accade per l’italiano (miseri-cordia), bensì l’utero della madre tant’è vero che al Signore viene messa in bocca questa confessione: «Si dimentica forse una mamma del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia 49,15). È curioso notare che tutte le sure del Corano (tranne la nona, frutto forse di un frazionamento) iniziano proprio con due aggettivi modulati sulla stessa radice semitica rhm: «Nel nome di Dio misericorde [clemente] misericordioso!» (bismi-Llah al-rahman al-rahim). Essere misericordiosi – che nell’Antico Testamento è soprattutto una qualità divina, più raramente applicata anche alla persona umana – equivale, allora, ad essere presi «fin nelle viscere», con un amore totale, spontaneo, assoluto, fino a compiere quel gesto estremo di donazione, delineato da Gesù nei discorsi dell’ultima sera della sua vita terrena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Giovanni 15,13).

         È significativo notare che il rehem/rahamîm anticotestamentario entra anche nei Vangeli sinottici attraverso il verbo greco dal significato “viscerale” equivalente, splanchnízomai, presente 12 volte. Così, ad esempio, nella cosiddetta «parabola del figlio prodigo», sulla quale ritorneremo, il termine esprime il commuoversi del padre quando vede profilarsi all’orizzonte il figlio ribelle che era fuggito di casa e che ora ritorna pentito (Luca 15,20), oppure è applicato al buon Samaritano che si emoziona di fronte al ferito abbandonato dai banditi sul ciglio della strada nella famosa parabola dell’evangelista Luca (10,33), che pure riprenderemo. Ma anche lo stesso Gesù ha il cuore attanagliato da questa tenerezza compassionevole quando incrocia i sofferenti sulle strade della Galilea. Così gli accade quando s’imbatte nel funerale del ragazzo del villaggio galilaico di Nain, figlio unico di una vedova (Luca 7,13), o quando vede davanti a sé la folla affamata che lo ha seguito e ascoltato (Marco 6,34), anzi esplicitamente confessa: «Provo commozione (splanchnízomai) per questa folla che mi segue da tre giorni senza mangiare» (Marco 8,3). La stessa esperienza si ripete davanti ai due ciechi di Gerico (Matteo 20,34), oppure con un lebbroso (Marco 1,41) e così via.

         I vocaboli sono, quindi, fondamentali per delineare il volto autentico della misericordia. Continuiamo, perciò, brevemente la nostra analisi lessicale. Se nell’Antico Testamento è da evocare un’intera costellazione di altri termini (caratteristico è hesed che risuona ben 245 volte, e che rimanda a varie sfumature della misericordia come “fedeltà, amore, bontà”), nel Nuovo Testamento brilla un vocabolo che è alla base della beatitudine già evocata: «Beati i misericordiosi perché sarà usata a loro misericordia» (Matteo 5,7). Si tratta di éleos che risuona 27 volte e che è derivato dal verbo eleîn (29 volte), il quale ha generato la nota invocazione liturgica Kyrie eleison. Nella quinta beatitudine di Matteo già citata (5,7) la ricompensa ai misericordiosi è il dono della misericordia divina nei loro confronti: makárioi hoi eleémones, hoti autoí eleethésontai, ai misericordiosi si presenta un Dio misericordioso, il Signore pietoso e il fedele misericordioso s’intrecciano in un abbraccio.

 

         I diversi volti della misericordia

 

         La misericordia è, dunque, una condivisione amorosa e, in questo senso, è un “com-patire” con la persona sofferente, è un coinvolgimento del cuore, cioè dell’intimità profonda della persona, della sua coscienza. Dostoevskij nel suo romanzo L’idiota definiva questa virtù come «la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera». Non per nulla, come si è visto, nella Bibbia si evocava il grembo materno, sorgente primaria di un amore che diventa affettivo ed effettivo. Si possono, così, individuare altri volti della misericordia. Essa è anche la tenerezza, come si sottolinea nel Salmo 103 sempre col verbo delle “viscere”, in questo caso paterne: «Come un padre è tenero (rhm) verso i suoi figli, così il Signore è tenero (rhm) verso coloro che credono in lui». Heinrich Böll nella sua Lettera a un giovane cattolico (1961) accusava «i messaggeri del cristianesimo di ogni provenienza» di aver ignorato la tenerezza. La sua proposta era per «una teologia che potesse acquisire la tenerezza e che ne usasse il linguaggio in modo da mettere fuori causa il suo grande antagonista: la mera legislazione ecclesiastica».

         Un altro sinonimo tematico della misericordia è la compassione, vista come empatia e considerata un ideale programma del cristianesimo nell’epoca del pluralismo religioso e culturale. La misericordia tenera e compassionevole è divenuta anche uno dei crocevia più cari dell’insegnamento di papa Francesco, soprattutto nei confronti dei poveri, degli ultimi, dei deboli, degli indifesi, a imitazione del Creatore che persino «provvede il cibo al bestiame, ai piccoli del corvo che gridano» (Salmo 147,9). Una misericordia che si china soprattutto sul peccatore: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà..., che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Esodo 34,6-7).

         A trionfare in Dio è appunto la pietà e – come ulteriore profilo della misericordia – c’è, allora, il perdono. A questo proposito brilla in Gesù non solo la sua testimonianza personale sulla croce («Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», Luca 23,34), ma anche la sua lezione offerta a Pietro e illustrata attraverso la parabola dei due debitori (Matteo 18,21-35). Al re generoso che condona un’immensa somma (diecimila talenti) al suo servo, raffigurando così la paradossalità e la sproporzione della misericordia divina, fa da contrasto stridente il servo che, invece, nei confronti di un suo collega, debitore di una cifra minima (cento denari), rivela la durezza dell’egoismo, dell’insensibilità, della durezza di cuore.

         Un testo apocrifo giudaico, il Testamento di Zabulon, forse contemporaneo agli esordi del cristianesimo o di poco anteriore, consigliava: «Voi, figli miei, abbiate perdono e misericordia verso ogni uomo, affinché anche il Signore abbia perdono e misericordia di voi. Perché, alla fine dei tempi, Dio manderà sulla terra la sua misericordia e, dovunque troverà viscere di misericordia, là egli abiterà. Come infatti un uomo perdona il suo prossimo, così anche il Signore perdonerà lui» (8,1-2). Come non ricordare la frase che, nel capitolo XXI dei Promessi Sposi, Manzoni mette in bocca a Lucia davanti all’Innominato: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!»?

Infine, un’altra virtù sorella della misericordia è la mitezza che è essa pure oggetto di una delle beatitudini del citato Discorso della montagna: «Beati i miti perché erediteranno la terra» (Matteo 5,5). Il filosofo Norberto Bobbio nel suo Elogio della mitezza (1993) aveva celebrato questa virtù come la più «impolitica», e si può comprendere questa sua posizione nel contesto della gestione della politica che ignora ogni compassione e si fonda sul potere e spesso sull’arroganza. In una visione più alta della politica la mitezza avrebbe invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Anzi, essa vuole essere come un seme efficace piantato nel terreno della storia per il progresso umano, per la pace, per il rispetto della dignità di ogni persona. Ma aspira a raggiungere questo scopo rifiutando la gara distruttiva della vita, la vanagloria e l’orgoglio personale e nazionalistico, etnico e culturale, scegliendo la via del distacco dalla cupidigia dei beni e l’assenza di puntigliosità e grettezza.

Concludendo, il chinarsi di Dio con amore paterno sulle creature anche peccatrici rimane, dunque, un modello luminoso per il credente, come riconosceva Agostino nelle sue Confessioni: «Sia lode a te, a te gloria, fonte della misericordia! Io divenivo sempre più misero e tu sempre più ti avvicinavi a me!» (VI,16,26). Se, dunque, è necessario riproporre una teologia della misericordia, è anche importante creare una vera e propria cultura della misericordia. Essa certamente si esprimerà in modalità nuove, tenendo conto delle attuali coordinate sociali coi vari sistemi di welfare, con le organizzazioni di volontariato, con le strutture di solidarietà e di accoglienza. È, però, indispensabile che alla radice di questa cultura ci sia un’etica della misericordia che impedisca sia la retorica della filantropia sia ogni degenerazione nelle pesanti e farraginose maglie burocratiche dell’assistenzialismo o, peggio, in infami forme di profitto che lucra sulla miseria.

 

Un duplice settenario di opere di misericordia

 

Proprio in questa luce desideriamo evocare un tema classico della tradizione, quello dei due settenari delle cosiddette “opere di misericordia corporale e spirituale”. Esse sono certamente da aggiornare ma possono essere un antidoto contro alcune degenerazioni prresenti nella società contemporanea ove serpeggiano sentimenti razzistici, ammantati dal pretesto paradossale di tutelare la propria identità cristiana, non mancano espressioni di crudeltà e ove la stessa prevaricazione finanziaria non conosce remore e quindi misericordia. È per questo che non solo le religioni nel loro significato autentico, ma anche l’aeropago della vita pubblica deve essere coinvolto nella costruzione di un’etica operosa della misericordia, della solidarietà, dell’amore.

Una simile attitudine non può esaurirsi nell’orizzonte materiale perché l’uomo non vive di solo pane. È il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij che invita a rinunciare alla libertà, deponendola ai piedi del potere, per ottenere solo cibo: «Fateci anche schiavi, ma dateci da mangiare!». Ecco perché, alle opere di misericordia «corporali» sono da allegare quelle «spirituali» che ai nostri giorni potrebbero parlare anche di libertà, di religione, di arte, di sapere, di bellezza, di gioco, di sentimenti. Iniziamo, però, in questa nostra essenziale rievocazione dell’impegno concreto cristiano della misericordia dalla realtà più immediata, l’atto “corporale” perché – come affermava san Giacomo nella sua Lettera – «se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi! ma non dà loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (Giacomo 2,15-17).

Il primo elenco di queste opere, modulato sul settenario, emblema biblico di pienezza, appare in uno scrittore latino cristiano del III-IV secolo, di origine africana, Lattanzio, precettore del figlio dell’imperatore Costantino, Crispo. Egli era un apologeta, cioè un difensore della fede cristiana nella polemica coi pagani e la sua convinzione era che la migliore apologia fosse quella testimoniale concreta, nell’alveo di quanto aveva affermato Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,35). La testimonianza operosa della misericordia «corporale» veniva così esplicitata in una selezione – ovviamente non esaustiva, ma solo emblematica – di questi impegni: dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gli infermi; visitare i carcerati; seppellire i morti.

          È facile intuire quale sia, in filigrana, la matrice che ha generato questo settenario. Si tratta del citato e grandioso affresco che il Gesù di Matteo (25,31-46) dipinge come estuario supremo del fiume della storia umana, quando si alzerà il sipario sulle opere di ciascuno. La sequenza delle scelte che assicurano «la vita eterna» o che condannano al «supplizio eterno» è costituita appunto dalle opere di misericordia.

          Come si diceva, la possibilità di un aggiornamento e di un allargamento di quella lista di opere è aperta, tenendo conto delle mutate coordinate sociali. Si pensi, tanto per esemplificare, all’«alloggiare i pellegrini» che riflette un fenomeno tipicamente medievale che non si è certo estinto ma che ormai deve lasciare spazio – come Gesù già faceva balenare nel suo elenco di opere caritatevoli («ero straniero») – agli stranieri, ai rifugiati, ai profughi, ai migranti secondo un’urgenza contemporanea di particolare gravità. È interessante, infatti, che la stessa storia dell’arte è ricorsa a questo procedimento di attualizzazione «sceneggiando» in modo diverso la serie delle opere di misericordia corporali. Sempre per indicare un esempio, basti evocare la grandiosa tela di 3,90 metri per 2,60 che Caravaggio dipinse per la Chiesa del Pio Monte della Misericordia a Napoli nel 1606 su committenza dell’omonima Congregazione, un’accolta di giovani nobili dediti alle opere di carità. Il pittore le assommò su un’unica pala, creando un modulo molto originale e complesso, oggetto ancor oggi di diversi esercizi interpretativi.

         

          Dal corpo allo spirito

 

          Passiamo, ora, nell’altro settenario che si rivolge alla cura misericordiosa di malattie e disagi dello spirito e che si sviluppa secondo un’esemplificazione dalle molteplici sfaccettature, passibili anche in questo caso di nuove applicazioni, attualizzazioni e inserzioni. Eccole nell’elenco tradizionale: consigliare i dubbiosi; insegnare agli ignoranti; ammonire i peccatori; consolare gli afflitti; perdonare le offese; sopportare pazientemente le persone moleste; pregare Dio per i vivi e per i morti.

          Non è, certo, necessario commentare questi impegni che comprendono non solo aspetti morali e religiosi ma anche psicologici, sociologici e antropologici. In alcuni casi, poi, l’azione misericordiosa può anche paradossalmente muoversi in senso opposto. Solo per fare un esempio, la prima opera dedicata a dissipare i dubbi meriterebbe il commento del filosofo Pascal che introduceva una metodologia ben più articolata: «Bisogna saper dubitare quando è necessario, sottomettersi quando è necessario. Chi non si comporta così, non capisce la forza della ragione. Ci sono persone che sbagliano contro questi tre principi: o affermando tutto come apodittico, perché non sono capaci di fare una dimostrazione; o dubitando di tutto, perché non sanno a chi bisogna sottomettersi; o sottomettendosi in tutto, perché ignorano quando si deve giudicare» (Pensieri n. 268, ed. Brunschvicg).

          In questa luce si deve riconoscere che possono esserci situazioni in cui la sapienza del consigliare – che, non dimentichiamolo è anche un dono dello Spirito Santo (cf. Isaia 11,2) – esige persino di provocare domande critiche, anche per evitare un’accettazione superficiale della fede, oppure un’acquiescenza amorfa di fronte all’imperio dell’opinione dominante. La ricerca, l’interrogazione, la tensione verso la pienezza della verità comprendono anche tappe oscure, necessarie per evitare l’inerzia spirituale, l’appiattimento intellettuale, l’indifferenza che si accontenta di certezze inoffensive. Bisogna, però, anche aggiungere che il grande dramma nell’odierna comunicazione virtuale, ove ogni persona è davanti a un paniere sterminato di dati, è quello di non avere la capacità di sceverare, di distinguere e giudicare. In questo è preziosa l’opera di chi consiglia e risolve i dubbi. Non per nulla Isaia descriveva così il tempo della crisi morale e spirituale: «Guardai, ma non c’era nessuno, tra costoro nessuno era capace di consigliare, nessuno da interrogare per averne una risposta» (Isaia 41,28).

          Si potrebbe procedere a lungo elaborando vere e proprie trattazioni di grande ampiezza e spessore su questa e sulle altre opere di misericordia spirituale che delineano il volto del «misericordioso» dichiarato beato da Cristo. Si pensi solo al tema dell’ignoranza che vede in azione una vera e propria legione di persone che non sanno di non sapere o che si illudono di sapere e reagiscono con arroganza a chi veramente sa. L’intera sequenza delle opere spirituali della misericordia è, comunque, un campo di esercizio della carità cristiana, spesso con esiti faticosi, perché le malattie interiori sono più delicate e complesse di quelle fisiche e le sofferenze dell’anima persino più laceranti e continue di quelle corporali.

          A suggello di questo nostro itinerario essenziale all’interno della virtù della misericordia vorremmo proporre due pagine simboliche esemplari. Si tratta di due delle 35 (o 72, secondo i diversi computi degli esegeti basati su differenti modelli letterari presi in esame) parabole di Gesù, vere e proprie descrizioni narrative della misericordia. Ricomporremo, così, una sorta di dittico emblematico per la rappresentazione del tema.

 

          Lungo la strada della misericordia

 

         Iniziamo evocando una delle pagine più celebri del vangelo di Luca, lo scriba mansuetudinis Christi, come lo definiva Dante nella sua opera Monarchia. Si tratta di una parabola di Gesù che Papa Francesco ha posto proprio a suggello della sua omelia di apertura dell’Anno santo, l’8 dicembre scorso in piazza S. Pietro: «Il Giubileo ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Concilio Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò il beato Paolo VI a conclusione del Concilio. Attraversare la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon Samaritano».

         Questa parabola (Luca 10,25-37) è ambientata sulla strada romana che, in una trentina di chilometri, conduce dagli 800 metri di Gerusalemme ai 300 sotto il livello del mare ove è situata la splendida oasi di Gerico. Essa ha, però, nel racconto evangelico, in cui è inserita, un altro contesto storico-geografico. Davanti a Gesù, che è in marcia dalla Galilea verso Gerusalemme, si presenta un dottore della legge che gli pone un quesito: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gli impegni dell’ebreo osservante per raggiungere questa meta erano stati codificati dalla tradizione rabbinica in 613 precetti estratti dalla Bibbia, 365 negativi (quanti sono i giorni dell’anno) e 248 positivi, tanti quante erano le ossa del corpo umano secondo l’antica fisiologia. Gesù risponde citando due passi biblici, entrambi legati all’“amare”: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Deuteronomio 6,5) e «Amerai il prossimo come te stesso» (Levitico 19,18).

         Il dialogo ha, però, una svolta nell’ulteriore replica dello scriba: «Chi è mai il mio prossimo?». È, questo, un quesito “oggettivo” che l’ebraismo risolveva sulla base di una serie di cerchi concentrici di rapporti interpersonali ben circoscritti. Gesù risponde ricorrendo, invece, a una parabola che alla fine ha un interrogativo rilanciato allo scriba: «Chi ha agito come prossimo?». Il ribaltamento è evidente: invece di interessarsi “oggettivamente” alla definizione del prossimo, Gesù invita a comportarsi “soggettivamente” da prossimo nei confronti di chi è nella necessità e che subito vede chi gli è veramente prossimo. A sostegno della tesi Cristo propone appunto una parabola.

         Un viandante sta percorrendo la strada sopra evocata che discende lungo i monti del deserto di Giuda. All’improvviso, si ha un assalto di briganti che «lo spogliarono, lo coprirono di percosse e se ne fuggirono lasciandolo mezzo morto». Ancora nel 1931 il vescovo anglicano di Gerusalemme era stato ucciso da un gruppo di predoni proprio mentre stava recandosi su questa strada da Gerusalemme a Gerico, e non è mancato chi ha ipotizzato che Gesù abbia preso spunto da un fatto contemporaneo di cronaca nera. La scena è drammatica: un corpo insanguinato, il silenzio del deserto, l’attesa di un passaggio. Ecco, finalmente, da lontano un sacerdote... Ma subito la delusione: «Passò oltre dall’altra parte» della strada. Ecco un altro passaggio, un levita... Di nuovo la delusione: anch’egli «passò oltre dall’altra parte».

         C’è, però, un terzo viandante che avanza più tardi: è un “eretico” samaritano, appartenente a una comunità che nella Bibbia è chiamata «lo stupido popolo che abita in Sichem», anzi, «neppure un popolo» (Siracide 50,25-26). Eppure è solo lui che si accosta e si piega sull’ebreo ferito, suo nemico religioso e politico, per aiutarlo. Gesù non si perde nei particolari per i primi due, cercando spiegazioni per il loro atto di omissione, motivato forse da ragioni rituali (il sangue e la morte rendevano impuri chi vi entrasse in contatto e ciò era rilevante per un sacerdote e un levita ai fini delle loro funzioni e del loro statuto). È curioso notare che nel Talmud si affronta il caso inverso di un ebreo che trova per strada un samaritano e un pagano feriti: naturalmente non è tenuto a prestare soccorso (’Abodah Zara’ 26).

         Gesù spazza via il legalismo che ignora la sofferenza dell’altro e che, alla fine, uccide e si ferma sulla figura-modello del samaritano. Costui è autenticamente prossimo del sofferente senza interrogarsi su chi sia questo prossimo da aiutare. «Si fa vicino», le sue viscere si commuovono, come si dice con l’uso del verbo greco della misericordia splanchnízomai che già conosciamo, il suo amore è operoso: fascia le ferite, vi versa vino e olio secondo i metodi del pronto soccorso antico, carica la vittima sulla sua cavalcatura, la depone solo quando giunge a uno dei caravanserragli che fungevano anche da albergo, per due volte si ripete il verbo “prendersi cura” (10,34-35), contribuisce anche alle spese successive con due denari. Il suo è un amore personale, sottolineato nell’originale evangelico greco dalla ripetizione del pronome greco autós: «Passò vicino a lui, gli fasciò le ferite, lo caricò sul suo giumento, lo condusse alla locanda e si prese cura di lui... Prenditi cura di lui!».

         Il sacerdote e il levita incarnano la rigida sacralità che separa dal prossimo; il samaritano rappresenta la misericordia e la vera religiosità che si unisce al dolore per redimerlo. È per questo che una tradizione successiva ha visto nel ritratto del samaritano un’immagine di Cristo stesso. Sulle mura di un edificio crociato diroccato, sito ora in quella stessa strada e chiamato liberamente “il khan (caravanserraglio) del Buon Samaritano”, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se  persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il Buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna».

         Più attenta all’impatto che doveva avere sull’uditorio di Gesù è la trascrizione attualizzata della parabola compiuta da un esegeta moderno: «Immagina tu, bianco razzista e magari affiliato al Ku Klux Klan, tu che fai chiasso se in un locale entra un negro e non perdi l’occasione per manifestare il tuo disprezzo e la tua avversione, immagina di trovarti coinvolto in un incidente stradale su una via poco frequentata e di star lì a morire dissanguato, mentre qualche rara auto con un bianco alla guida passa e non si ferma. Immagina che ad un certo punto si trovi a passare un medico di colore e si fermi per soccorrerti...».

         Certo è che nella parabola appare in tutto il suo splendore il messaggio cristiano dell’amore e della misericordia che pervade molte parole di Gesù, a partire dall’appello del Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,43-44). Per giungere fino al testamento finale di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35).

        

   Una storia familiare

 

         L’altra tavola del nostro dittico sulla misericordia può essere simbolicamente occupata da una delle tele più note di Rembrandt, conservata all’Ermitage di San Pietroburgo. Essa illustra lo sbocco finale di un’altra parabola di Gesù narrata sempre da Luca e incastonata nel cap. 15 (vv. 11-24) del suo vangelo. Al centro del quadro del grande pittore olandese domina frontalmente un padre che, con gli occhi socchiusi in un atto di tenerezza appassionata, si curva per avvolgere in un abbraccio il figlio ribelle inginocchiato e pentito. Tutti hanno compreso che stiamo parlando di una delle più intense parabole di Gesù, accostata da Luca a quella della pecora perduta nel deserto e recuperata (15,4-7) e della moneta smarrita (15,8-10), entrambe però ritrovate.

         Per definire questo racconto evangelico si ricorre tradizionalmente a un aggettivo piuttosto raro, per non dire obsoleto nel linguaggio comune odierno, “prodigo”. Ed effettivamente questo aggettivo ben s’adatta ai tre attori della narrazione integrale che noi però abbiamo citato solo nel primo atto. Si ha innanzitutto proprio quel padre: egli è “prodigo” nel suo amore misericordioso nei confronti dei suoi due figli. Il minore è “prodigo” nella ribellione e nel peccato, mentre il maggiore è “prodigo” di orgoglio e di grettezza. La nostra riflessione si ferma sulla vicenda del figlio che decide di tagliare i ponti con la sua famiglia, colui che ha assegnato il titolo tradizionale a questa parabola detta appunto del “figlio prodigo”.

         È una storia che ininterrottamente si ripete, creando incubi nei genitori ma talora anche rassegnazione per cui spesso si spegne la fiamma dell’attesa di un ritorno e il germe della speranza si inaridisce nell’amarezza. Non così per questo padre che continua a spiare l’orizzonte, lungo quella strada che aveva visto la fuga del suo ragazzo. È, infatti, significativo che tutto il testo sia intessuto su verbi di moto. Si inizia fin dalle prime righe quando, richiesto l’anticipo sulla sua parte di eredità, il giovane apedémesen, in greco letteralmente “uscì dal suo démos”, cioè dal suo territorio, dal suo villaggio, dalla sua comunità familiare.

         Subito dopo, lo si intravede in una terra straniera, mentre si abbandona a una vita senza controlli e senza regole, ma, dopo questa parentesi frenetica e illusoria, ecco il realismo di una crisi economica e il ragazzo è descritto mentre vaga senza meta in quella che sembrava la patria della libertà più sfrenata e della felicità, trasformata invece in un luogo ostile. Lentamente precipita nella miseria, nell’abiezione e nell’umiliazione. Così è rappresentata tradizionalmente la via del peccato, dorata all’inizio, fallimentare alla fine. È curioso notare che nel linguaggio anticotestamentario il peccato è descritto con vocaboli che evocano deviazione, vagare senza meta, fallire il bersaglio.

         Ma ecco la svolta interiore ed esterna, affidata ancora a verbi di moto: «Ritornò in sé... Mi alzerò e andrò da mio padre... Si alzò e tornò da suo padre». Ora, nella Bibbia “ritornare”, in ebraico shûb, è il verbo della “conversione” e designa appunto il ritornare sulla pista giusta, dopo aver vagato per sentieri ingannevoli nelle lande desertiche del male. A questo punto l’obiettivo del narratore si sposta proprio su questa via del ritorno-conversione, proiettandosi verso l’ultima tappa, la strada di casa. Là, come faceva ogni giorno, c’è il padre che attende e spinge lo sguardo in lontananza, mai rassegnato nel suo amore a quella partenza. All’improvviso vede una sagoma profilarsi all’orizzonte.

         Subito la riconosce e le «corre incontro» per l’abbraccio: Gesù descrive l’emozione di quel padre con un verbo tipico che già conosciamo, quello greco destinato a indicare le “viscere” paterne che fremono di amore per la sua creatura. Il termine è splanchnízomai e, come è noto, rimanda sia al grembo materno sia alla genitorialità paterna. La misericordia, nel suo aspetto più tenero e “viscerale” (pallida e insufficiente è, quindi, la versione solita «ebbe compassione»), celebra ora la sua epifania più alta e autentica, capace di vincere ogni delusione e recriminazione. Infatti, nella gioia del ritrovamento del figlio perduto, per due volte il padre ripeterà: «Questo figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (15,24.32). Come è noto, la parabola ha purtroppo un risvolto amaro: il figlio maggiore non vuole condividere la festa per questo ritorno. Egli non è capace di vivere la dolcezza della misericordia e del perdono e si rinchiude nella freddezza altezzosa e gretta del solo giudizio.

         A questo punto, il vero suggello di tutto l’itinerario che abbiamo condotto lungo i sentieri d’altura della misericordia potrebbe essere affidato ad alcune voci diverse tra loro ma consonanti. La prima è quella di uno dei grandi Padri della Chiesa, s. Ambrogio, che dichiarava: «Dove c’è misericordia là c’è Dio. Dove c’è rigore e severità, ci sono forse i ministri di Dio, ma Dio non c’è (Deus deest)». Al vescovo di Milano associamo s. Giovanni Crisostomo, Padre della Chiesa di Oriente (IV sec.), in uno dei suoi sermoni: «Che cos’è il peccato davanti alla misericordia divina? È una tela di ragno che un soffio di vento basta a far volare via». L’amore paterno di Dio e della persona buona scioglie le incrostazioni gelide del male, rende la colpa come una tela di ragno che può essere facilmente lacerata e dissolta. La terza testimonianza, in spirito ecumenico, è quella di Lutero che affermava: «La misericordia di Dio è come il cielo che rimane sempre fermo sopra di noi. Sotto questo tetto siamo al sicuro, dovunque ci troviamo».

         Ma per concludere riascoltiamo Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo, Misericordiae vultus, che ben intreccia le due dimensioni di questa virtù, la teologica e l’antropologica: «Misericordia: è l’atto ultimo e supremo col quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita» (n. 2).

 

Card. GIANFRANCO RAVASI